– Non una parola, mi raccomando – egli proseguì sottovoce; – lascia che tutta la responsabilità ricada su Dick... su Dick lo sciocco... su Dick il matto. È da qualche tempo, Trot, che ci pensavo, e ora ci sono. Dopo ciò che m’hai detto, son certo d’esserci. Benissimo.
Il signor Dick non fiatò più su quell’argomento; ma per una mezz’ora continuò a telegrafarmi, facendo gravemente impensierire mia zia, di mantenere il più profondo segreto.
Per due o tre settimane, con mia gran sorpresa, non ne seppi più nulla, benché fossi abbastanza interessato nell’esito dei suoi sforzi, perché scorgevo uno strano barlume di buon senso – non dico di generoso sentimento, che non gli aveva fatto mai difetto – nella conclusione alla quale egli era arrivato. Finalmente cominciai a pensare, che per la volubilità e l’infermità del suo spirito, avesse o dimenticato o lasciato cadere il progetto che gli stava a cuore.
Una bella sera che Dora non si sentiva disposta ad uscire, mia zia e io facemmo una passeggiatina fino al villino del dottore. S’era in autunno, e non v’erano le discussioni parlamentari ad amareggiarmi la dolcezza dell’aria della sera; e ricordo che le foglie che calpestavo odoravano come il nostro giardino di Blunderstone, e l’antica sensazione di tristezza sembrava che ritornasse sui sospiri del vento.
Giungemmo al villino con l’estremo crepuscolo. In quell’istante la signora Strong usciva nel giardino, dove il signor Dick s’era indugiato, con un coltello in mano, ad aiutare il giardiniere che piantava certi pioli.
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