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      Tutto ciò che ci circondava, a quell’ora, era pauroso: opprimente, triste e solitario, come in nessun’altra contrada di Londra. Non v’erano né banchine né case sulla strada melanconica presso il grande edificio della Prigione. Una specie di palude depositava il suo fango accanto ai muri del fabbricato. Erbacce e piante male odoranti s’aggrovigliavano su tutto il terreno acquitrinoso. Da una parte, scheletri di case, sciaguratamente cominciate e non mai finite, si riducevano lentamente in polvere; dall’altra, un ammasso di mostruose ferramenta rugginose: caldaie a vapore, ruote, grue, tubi, fornaci, àncore, campane da palombaro, pale da mulino a vento, e non so quanti altri strani oggetti, accumulati non si sa da chi, che cercavano invano di nascondersi sotto la polvere e il fango che li ricoprivano. Il fracasso e il bagliore di varie strepitose officine sulla riva opposta parevano turbare ogni cosa intorno, ma non il fumo pesante che saliva ininterrotto dai loro fumaiuoli. Aperture e passaggi fangosi serpeggiavano fra vecchi pilastri di legno tutti ricoperti d’un musco verdastro e di laceri affissi dell’anno prima che promettevano un compenso a chi avesse raccolto cadaveri d’annegati lasciati nel limo dalla marea. Si diceva che lì presso fosse stata scavata una gran fossa per la sepoltura dei morti al tempo della Gran Peste; e sembrava che un sinistro influsso ne fosse derivato a tutto il vicinato: come se l’ammasso dei cadaveri si fosse gradatamente decomposto e formasse la sostanza di ogni fiotto di quell’acqua limacciosa.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





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