Quel disgraziato garzoncello, preso a nostro servizio in un’ora di cattiva ispirazione a sei sterline e dieci scellini all’anno, era per me una sorgente di continua ansietà. Lo vedevo crescere – e crescere come i fagioloni di Spagna – pensando con tristezza al giorno che sarebbe diventato calvo o grigio. Non vedevo la maniera di potermi mai sbarazzare di lui; e, pensando all’avvenire, passavo in rassegna tutti i fastidi che ci avrebbe dato nella vecchiaia.
Ero lungi dallo sperare che quel disgraziato avrebbe pensato egli stesso a trarmi d’impaccio. Rubò l’orologio di Dora, che, come tutto ciò che ci apparteneva, non aveva un posto suo particolarmente designato; e convertitolo in denaro sonante, spese il ricavato (povero imbecille) nel farsi scarrozzare su e giù sull’imperiale della diligenza fra Londra e Uxbridge. Fu arrestato e condotto a Bow Street, come ben ricordo, alla fine del quindicesimo viaggio, con quattro scellini e sei pence addosso e uno zufolo d’occasione ch’egli non sapeva sonare.
Quella scoperta e tutte le sue conseguenze non mi sarebbero state così penose, se egli non si fosse mostrato pentito. Ma il fatto sta ch’egli era veramente e profondamente pentito, in una maniera sua speciale... non in volume, ma a fascicoli. Per esempio: il giorno appresso a quello in cui fui costretto a deporre contro di lui, egli fece certe rivelazioni sul conto d’una cesta in cantina, che noi credevamo fosse piena di vino, e che non conteneva invece più che bottiglie e turaccioli di sughero.
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