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      Ciò che mi mancava, lo giudicavo ancora – e lo giudicai sempre così – come qualcosa che fosse stato il sogno della mia fantasia giovanile; che era incapace di avverarsi, e che comprendevo, come tutti gli uomini comprendevano, con qualche sofferenza, non si poteva avverare. Ma che sarebbe stato molto meglio per me, se mia moglie avesse potuto aiutarmi un po’ più, e partecipare alle molte cure nelle quali non avevo compagni; e capivo che questo sarebbe potuto avvenire.
      Fra queste due irreconciliabili conclusioni: l’una, che ciò che sentivo era generale e inevitabile; l’altra, che una circostanza m’era particolare e avrebbe potuto essere diversa; pencolavo curiosamente, senza che avessi un chiaro senso della loro aperta opposizione. Quando pensavo agli aurei sogni della giovinezza, che non possono incarnarsi, pensavo che l’adolescente godesse una beatitudine ignota all’adulto. E allora il tempo felice passato con Agnese, nella cara vecchia casa, si levava innanzi a me, come un fantasma del passato, che avrebbe potuto ripetersi in un altro mondo, ma che non si sarebbe mai più rianimato in questo.
      Talvolta un altro pensiero mi sorgeva in mente: che sarebbe potuto accadere, o che sarebbe accaduto, se Dora e io non ci fossimo mai conosciuti? Ma ella era così incorporata con la mia esistenza, che quella fuggevole idea tosto si dileguava lungi da me come un filo che ondeggia nell’aria.
      Io le volevo sempre bene. I sentimenti che qui ritraggo sonnecchiavano, e si svegliavano appena e si riaddormentavano nei più intimi recessi dell’anima.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





Agnese Dora