Doady mi porterà su prima d’andarvene, e io non verrò giù finché non ritornerete; e mi farete il piacere di portare ad Agnese una mia terribile lettera di rimproveri, perché non è mai venuta a trovarci.
Convenimmo, senz’altro, d’andare entrambi, e che Dora era una piccola impostora, che fingeva di sentirsi male per essere vezzeggiata. Ella ne parve gioiosamente soddisfatta; e in quattro, vale a dire mia zia, il signor Dick, Traddles e io partimmo per Canterbury con la diligenza di Dover quella sera stessa.
All’albergo, dove il signor Micawber ci aveva dato l’appuntamento, e dove entrammo, non senza qualche difficoltà, nel cuore della notte, trovai una lettera che diceva che egli si sarebbe presentato puntualmente alle nove e mezzo. Dopo di che, ci recammo tutti intirizziti, a quell’ora indebita, ai nostri rispettivi letti, per una lunga successione di piccoli corridoi, che odoravano come se fossero stati immersi per secoli in una soluzione di minestra e scuderie.
La mattina presto, vagai per quelle vecchie e tranquille vie, e di nuovo mi trovai all’ombra dei venerandi cancelli e della Cattedrale. Le cornacchie svolazzavano intorno alle torri, che, dominando un vasto spazio della campagna lussureggiante traversata da limpide acque, si profilavano nella trasparente aria del mattino, come se non vi fossero stati in terra mutamenti di sorta. Pure, le campane, sonando, mi narravano melanconicamente di mutamenti in ogni cosa; mi narravano della loro età, e della giovinezza della mia leggiadra Dora, e dei molti, che avevano vissuto, avevano amato ed erano morti, mentre le loro vibrazioni, ronzando a traverso la rugginosa armatura del Principe Nero sulla Cattedrale, festuche sull’abisso del Tempo, s’erano dileguate nell’aria come cerchi nell’acqua.
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