Non chiedo di più. Soltanto, per spirito di giustizia, si dica di me, come di quel valoroso eroe navale, col quale non ho la prevenzione di paragonarmi, che ciò che ho fatto, l’ho fatto, non per interessi egoistici e venali, ma per
«L’Inghilterra, la patria e la bellezza.
E rimango, per la vita, ecc:, ecc.».
«Wilkins Micawber».
Con molta commozione, ma con pari soddisfazione, il signor Micawber piegò la lettera e la consegnò con un inchino a mia zia, come un documento che le sarebbe piaciuto di conservare.
Esisteva, come avevo già osservato al tempo della mia prima visita colà, una cassaforte nella stanza. La chiave era nella serratura. Uriah parve in preda a un improvviso sospetto. Con un’occhiata a Micawber, si slanciò verso la cassaforte, e l’aprì rumorosamente. Era vuota.
– Dove sono i registri? – egli esclamò, con una spaventevole espressione. – Qualche ladro mi ha rubato i registri!
Il signor Micawber si picchiò con la riga.
– Sono stato io, quando come al solito m’avete dato la chiave, e l’ho aperta questa mattina.
– Non ve ne date pensiero – disse Traddles. – Sono in mio possesso. Li custodirò gelosamente nella qualità che già v’ho detto.
– E voi ricettate la roba rubata? – esclamò Uriah.
– In queste circostanze – rispose Traddles – sì.
Qual non fu il mio stupore quando vidi mia zia, che era stata fino a quel momento perfettamente calma e attenta, balzare su Uriah Heep, e afferrarlo per il bavero con ambe le mani.
– Sapete che voglio? – disse mia zia.
– Una camicia di forza – egli disse.
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