– Non perché io ne sia orgogliosa, marito beffardo – ella dice, vedendomi sorridere – ma perché tu dicevi che erano tanto belli; e perché le prime volte che io cominciai a pensare a te, solevo andare a guardarmi nello specchio, domandandomi se ti sarebbe piaciuto averne un ricciolo. Oh, quanto eri sciocco, Doady, quando io te ne diedi uno!
– Fu quel giorno che tu dipingevi i fiori che t’avevo offerto, Dora, e che ti dissi quanto ti volevo bene.
– Ah, ma non volli dirti allora – soggiunse Dora – che avevo pianto sui fiori perché credevo che realmente tu mi volessi bene! Quando guarirò, Doady, andremo a rivedere quei luoghi dove abbiamo fatto tante bambinate! Rifaremo le stesse passeggiate. E non dimenticherò il povero papà.
– Sì, ci andremo, e saremo di nuovo felici. Devi far presto a guarire, cara.
– Oh, guarirò subito! Non vedi che sto già meglio?
È sera, e seggo sulla stessa sedia, accanto allo stesso letto, col medesimo volto fisso nel mio. Siamo stati per un po’ in silenzio, e v’è un sorriso su quel volto. Non porto più quel leggero carico su e giù per le scale, ora. Ella se ne rimane lì tutto il giorno.
– Doady!
– Mia cara Dora!
– Non penserai che io sia irragionevole, dopo che m’hai detto che il signor Wickfield sta poco bene, se ti dico che ho bisogno di veder Agnese. Ho proprio bisogno di vederla.
– Le scriverò, mia cara.
– Le scriverai?
– Subito.
– Come sei buono! Doady, lasciami appoggiare al tuo braccio. Veramente, mio caro, non è un capriccio; non è una fantasia sciocca. Ho veramente, veramente bisogno di vederla.
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