Noi passammo la notte nella vecchia casa, la quale, liberata della presenza degli Heep, sembrava purgata da una pestilenza; e io mi coricai nella mia antica cameretta, come un naufrago errante arrivato sotto il tetto della sua infanzia.
Il giorno dopo tornammo a casa di mia zia... non nella mia; e quando io e lei fummo soli, come una volta, prima di andare a letto, mi disse:
– Trot, veramente hai voglia di sapere ciò che m’ha affannato ultimamente?
– Sì, zia. Oggi, più che mai, non posso non desiderare di prender parte ad ogni vostro affanno, ad ogni vostro dolore.
– Ne hai avuti abbastanza per conto tuo, figlio mio – disse mia zia, affettuosamente – perché sia necessario aggiungervi le mie piccole mi serie. Non ho avuto altro motivo, Trot, per celartele.
– Lo so – dissi – ora ditemele.
– Vuoi venir con me domani mattina? – chiese mia zia.
– Naturalmente.
– Alle nove – ella disse. – Ti dirò tutto, caro.
Alle nove, puntualmente, salimmo in un carrozzino, diretti a Londra. Passammo per molte vie, finché non arrivammo presso uno dei maggiori ospedali. Vicinissimo all’edificio attendeva un modesto carro funebre. Il cocchiere riconobbe mia zia, e obbedendo a un cenno della mano di lei allo sportello, si mise lentamente in cammino. Noi lo seguimmo.
– Comprendi, ora, Trot – disse mia zia. – Egli è morto. .
– Morto all’ospedale?
– Sì.
Ella ora se ne stava immobile, accanto a me; ma, di nuovo, vidi qualche lagrima rigarle il volto.
– V’era già venuto una volta – riprese subito mia zia. – Era malato da lungo tempo; era, da molti anni, una rovina d’uomo.
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