Egli si recò all’ufficio della diligenza, dietro mia preghiera, e prese per me un posto sull’imperiale. Partii quella sera stessa e rifeci la strada percorsa tante volte in mezzo a tante vicissitudini.
– Non vi sembra un cielo strano? – domandai al cocchiere, alla prima fermata fuori di Londra. – Non mi ricordo d’averne mai visto l’eguale.
– Neppure io l’ho visto mai – egli rispose. – È il vento, signore. Temo che fra poco vi saranno disgrazie in mare.
V’era un tenebroso agglomeramento di rapide nubi, traversate qua e là dal colore del fumo umido. S’accumulavano in masse enormi, facendo pensare a maggiori altezze delle profondità dei più profondi abissi della terra, e la luna sgomenta sembrava vi s’immergesse a capofitto, come se avesse, in un terribile sconvolgimento delle leggi della natura, perduta la via del cielo. Il vento, che aveva soffiato tutto il giorno, diventava più violento e strepitava con un rombo formidabile. Un’ora dopo era molto più forte, e il cielo più nero e tempestoso.
Ma a misura che la notte avanzava e le nuvole s’addensavano più fitte per tutto l’orizzonte, che era allora nerissimo, il vento raddoppiò di furore. Crebbe tanto, che i cavalli potevano appena tenergli fronte. Parecchie volte, nella tenebra notturna (era la fine di settembre e le notti erano già lunghe), i cavalli si volsero indietro o si fermarono improvvisamente; e in qualche istante ci assalì la paura che la diligenza si rovesciasse. Violente raffiche di pioggia cadevano con questa tempesta, come acquazzoni di acciaio; e allora, se v’era qualche riparo d’alberi o qualche muro, eravamo più lieti di fermarci, nell’assoluta impossibilità di continuare la lotta.
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Londra
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