Qualche sforzo si faceva per tagliarlo e buttarlo via; quando la nave, ché era piegata su un fianco, si voltava improvvisamente verso di noi, vedevo distintamente l’equipaggio lavorar d’ascia, specialmente un tale dai capelli ricci, che si segnalava fra gli altri per la sua attività. Ma in quel momento un grand’urlo, che dominò il vento e il mare, si levò dalla sponda: le onde avevano spazzato il ponte e trasportavano uomini, tavole, botti, parapetti, e altri balocchi simili nei marosi in furia.
Rimaneva il secondo albero, coi brandelli di una vela lacera, e una orrenda confusione di gomene rotte che lo flagellavano in tutti i sensi. La nave aveva urtato una volta, mi gridò il marinaio in un orecchio; e poi si sollevò e urtò di nuovo. Poi la stessa voce aggiunse che la nave si spaccava di traverso, ed era facile immaginarlo, perché l’assalto era troppo ineguale per una lunga resistenza. Mentre il marinaio parlava, si levò un altro gran grido di pietà dalla spiaggia: quattro uomini vennero a sommo delle acque, aggrappati all’attrezzatura dell’albero superstite; e in mezzo a essi quel tale più attivo, dai capelli ricci.
V’era una campana a bordo, e mentre la nave s’agitava e saltava come una folle, disperata creatura, ora mostrandoci, nel voltarsi verso la sponda, il ponte devastato, ora scagliandosi violentemente in alto e volgendo verso il mare nient’altro che la chiglia, la campana sonava; e quel suono, il mortorio di quegli infelici, arrivava fino a noi trasportato dal vento.
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