A intervalli, nella città, e anche un po’ fuori sulla strada maestra, incontrai dei gruppi numerosi; ma finalmente mi furono intorno soltanto la notte nera e l’aperta campagna e le ceneri della mia amicizia infantile.
In una mite mattinata d’autunno, verso mezzogiorno, allorché il suolo era già profumato dalle foglie cadute, e molte altre, colorate delicatamente di giallo, di rosso, e di bruno, pendevan dagli alberi, illuminate dal sole, arrivai a Highgate. Feci a piedi l’ultimo miglio, pensando a ciò che dovessi fare, e lasciai ferma la vettura che mi aveva seguito tutta la notte, in attesa del mio ordine di continuare il viaggio.
La casa, quando vi giunsi dinanzi, mi parve la stessa. Neppure una cortina era sollevata, non un segno di vita nella triste corte lastricata, con la galleria che conduceva all’ingresso disusato. Il vento era cessato, e non si moveva più nulla.
Sulle prime, al cancello, non ebbi il coraggio di sonare; e quando sonai, mi parve che il mio messaggio venisse espresso dallo stesso suono del campanello. Venne fuori, con la chiave in mano, la piccola cameriera, e, guardandomi, ansiosa mentre apriva, mi disse:
– Scusate, signore. Vi sentite male?
– No, sono stato molto agitato, e sono stanco.
– Che c’è, signore?... Il signor Giacomo?...
– Zitta! – dissi. – Sì, c’è qualche cosa che debbo annunziare alla signora Steerforth. È in casa?
La ragazza rispose piena d’ansia che la padrona oramai usciva di rado anche in carrozza; che se ne stava in camera sua, che non riceveva visite, ma che io certo sarei stato ricevuto.
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Highgate Giacomo Steerforth
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