Mi riveggo errare fra le nuove visioni delle città straniere, fra palazzi, cattedrali, templi, quadri, castelli, tombe, strade fantastiche – le antiche dimore della storia e della fantasia – come in un sogno; e porto da per tutto la mia pesante soma, e m’accorgo appena degli oggetti che mi sfilano innanzi. Ignara di tutto, ma colma d’ambascia, era la notte che avviluppava il mio cuore indisciplinato. Ma usciamone – come finalmente io feci, grazie al Cielo! – e fuor di quel lungo, triste, angoscioso sogno, guardiamo all’alba.
Per molti mesi viaggiai con quella nube eternamente opaca sullo spirito. Per alcune oscure ragioni che avevo di non tornare in patria – ragioni che allora invano lottavano in me per trovare un’espressione più distinta – continuai a peregrinare. Talvolta ero passato inquieto di città in città senza fermarmi mai; talvolta ero rimasto a lungo in un punto. Ma in nessun luogo mai trovavo un proposito, un pensiero che mi sostenesse.
Ero in Isvizzera, ed ero arrivato dall’Italia, per uno dei grandi valichi delle Alpi, e d’allora avevo vagato con una guida per i sentieri delle montagne. Non so se quelle spaventose solitudini avessero parlato al mio cuore. Avevo, in quelle formidabili altezze e in quei precipizi, in quei torrenti muggenti, e in quei deserti di ghiaccio e di neve, trovato il sublime e il meraviglioso; ma pure non avevo raccolto null’altro.
Arrivai, una sera prima del tramonto, in fondo a una valle che mi doveva dare un rifugio per la notte. Durante la mia discesa laggiù, per il tortuoso sentiero lungo il fianco della montagna, donde vedevo in alto splendere il sole, m’invase un senso di bellezza e di tranquillità non sperimentato più da tempo, e un dolce influsso, suscitato da quella pace, mi commosse soavemente il petto.
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