Altre lettere erano andate smarrite, e da lungo tempo non ne avevo ricevuta alcuna. Tranne una riga o due, per dire che stavo bene ed ero arrivato in questo o quel punto, non avevo avuto la forza o la costanza di scrivere altro da quando ero partito.
Avevo il pacchetto in mano. L’apersi, e vidi la scrittura d’Agnese.
Ella era felice di esser utile, e riusciva nei suoi propositi, come aveva sperato. Questo era tutto ciò che mi diceva di sé. Il resto si riferiva a me.
Non mi dava consigli; non mi parlava di doveri; mi diceva soltanto, col suo solito fervore, d’avere una gran fiducia in me. Sapeva – ella diceva – che un carattere come il mio avrebbe saputo trarre il bene dal male. Le prove e il dolore l’avrebbero elevato e rafforzato. Certo i miei propositi sarebbero diventati più fermi e più alti, a traverso i dolori che avevo sofferti. Lei, che era così orgogliosa della mia fama e si aspettava di vederla aumentare, era certa che avrei continuato a lavorare. Era sicura che l’ambascia in me non doveva essere debolezza, ma forza. Come le sofferenze della mia infanzia avevano contribuito a farmi ciò che ero, le nuove sofferenze m’avrebbero dato la forza di diventare migliore; e così, come erano state una scuola per me, sarebbero state una scuola per gli altri. Ella mi raccomandava a Dio, che aveva raccolto nella sua gloria la mia cara innocente; e mi amava sempre con affetto di sorella, e mi accompagnava col pensiero dovunque io mi recavo; orgogliosa di ciò che avevo fatto, ma più orgogliosa ancora di ciò che ero destinato a fare.
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Agnese Dio
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