I libri che avevo letti insieme con Agnese erano negli scaffali; e il leggio dove avevo studiato le lezioni era sullo stesso cantuccio di tavolino. Tutti i piccoli mutamenti, introdotti al tempo degli Heep, erano spariti. Ogni oggetto era come soleva essere nel tempo felice che non era più.
Nel vano d’una finestra, guardai attraverso l’antica via alle case di fronte, ricordando come le avevo contemplate nei giorni di pioggia, dopo che m’ero stabilito a Canterbury; e come solessi fantasticare sulle persone che apparivano a questa o a quella finestra, e seguirle con gli occhi su e giù per le scale, mentre le donne andavan battendo gli zoccoli lungo i muri, e la pioggia uggiosa cadeva in linee trasversali, e traboccava dalle grondaie, rifluendo nella via. Il sentimento col quale solevo mirare i vagabondi che arrivavano zoppicanti in città in quelle sere di pioggia, nell’ora del crepuscolo, coi loro fardelli sulla schiena, pendenti dalla punta d’un bastone, mi ritornava fresco alla memoria, carico, come allora, dell’odore della terra molle, e delle foglie umide e dei rovi, e della sensazione dello stesso vento che m’aveva soffiato addosso nel mio viaggio faticoso.
Il rumore della porticina che s’apriva nel muro rivestito di legno mi fece balzare e voltare. Gli occhi belli e sereni di lei incontrarono i miei nell’atto ch’ella veniva verso di me. Si fermò e si mise la mano al seno, e io me la strinsi nelle braccia.
– Agnese! Mia cara Agnese! Forse ho fatto male ad arrivare così all’improvviso.
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