Perché penso che eravamo felici allora.
– Sì che eravamo felici – dissi.
– E tutto ciò che mi ricordava mio fratello – disse Agnese, volgendo lietamente su me i suoi sguardi affettuosi – m’ha fatto la più cara compagnia. Anche questo – e mi mostrò il panierino pieno di chiavi, sospeso al suo fianco – par che tintinni una specie di vecchia canzone.
Ella sorrise di nuovo, e uscì per la porticina per la quale era entrata.
Era mio dovere di conservarmi con cura religiosa quell’affetto di sorella. Era tutto ciò che mi rimaneva, ed era un tesoro. Se avessi scosso pur una volta le fondamenta della sacra fiducia e della consuetudine, in virtù delle quali m’era dato, l’avrei perduto senza più speranza di ricuperarlo. Mi persuasi fermamente di questo. Più le volevo bene, e più doveva starmi a cuore di non dimenticar questo.
Andai a spasso per la città; e rivedendo ancora una volta il mio antico avversario il macellaio – diventato una guardia, col bastone, simbolo d’autorità, appeso alla parete della bottega – andai a dare una capatina al luogo dove l’avevo battuto, e colà meditai sulla signorina Shepherd, e la maggiore delle signorine Larkins, e su tutte le mie futili passioni e simpatie e antipatie di quel tempo. Pareva che di quel tempo non sopravvivesse altro che Agnese, la quale splendeva su di me come una stella, e diventava sempre più lucente.
Al mio ritorno, il signor Wickfield era arrivato da un giardino che egli aveva un paio di miglia fuori di città, e che l’occupava quasi ogni giorno.
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Agnese Shepherd Larkins Agnese Wickfield
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