Lo trovai come mia zia me lo aveva descritto. E ci mettemmo a desinare, con una mezza dozzina di bambine, ed egli non sembrava che l’ombra del suo bel ritratto sul muro.
La tranquillità e la pace che io associavo, da tanto tempo, in mente mia, a quel luogo, lo circondavano ancora. Finito il desinare, siccome il signor Wickfield non volle più il vino, e io come lui lo rifiutai, andammo di sopra, dove Agnese e le sue piccole allieve cantarono e sonarono, e lavorarono. Dopo il tè, le bambine ci lasciarono, e noi tre c’intrattenemmo parlando del passato.
– Io vi trovo – disse il signor Wickfield, scotendo il capo canuto – molte ragioni di rimpianto... di profondo rimpianto, e di amaro pentimento Trotwood, voi lo sapete bene. Ma se potessi cancellare il passato, non lo cancellerei.
Lo credevo facilmente, solo guardando il bel viso che gli era a fianco.
– Cancellerei con esso – egli continuò – il ricordo della pazienza e della devozione, della fedeltà e dell’amore di mia figlia, che debbo sempre tener presenti, anche dimenticando me stesso.
– Comprendo, signor Wickfield – gli dissi dolcemente. – Io la venero... Io la... io l’ho sempre tenuta in venerazione.
– Ma nessuno sa, neanche tu – egli rispose – quanto ella abbia fatto, quanto abbia sofferto, con quanto coraggio abbia lottato. Cara, cara Agnese!
Ella gli afferrò con la mano il braccio in atteggiamento supplichevole, per fermarlo; ed era pallida pallida.
– Via, via! – egli disse con un sospiro, respingendo evidentemente il ricordo d’un dolore che sua figlia aveva dovuto sopportare e che forse sopportava ancora (pensai a ciò che m’aveva detto mia zia). – Trotwood, io non ti ho mai detto nulla di sua madre.
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