Una scena così commovente era fatta per fissarmi particolarmente nella memoria il ricordo di quella sera, la prima della nostra riunione.
Non passò molto, ed Agnese si levò dal fianco di suo padre; e, messasi al piano, sonò alcune delle vecchie arie che spesso avevamo ascoltate nella stessa stanza.
– Avete intenzione di mettervi in viaggio di nuovo? – mi chiese Agnese, mentre le stavo a fianco.
– E qual è il pensiero di mia sorella?
– Spero di no.
– E allora non ho una simile intenzione, Agnese.
– Io credo, giacché me lo domandate, che non dovreste andarvene, Trotwood – ella riprese dolcemente. – La vostra crescente reputazione, il vostro successo aumentano in voi il potere di far bene; e se io potrei fare a meno di mio fratello – disse guardandomi negli occhi – il tempo forse non potrebbe.
– Ciò che sono, io lo debbo a voi, Agnese. Giudicate voi.
– Lo dovete a me, Trotwood?
– Sì, Agnese, a voi! – dissi, chinandomi su di lei. – Ho tentato di dirvi, quando vi ho rivista, stamane, qualche cosa che m’è stato sempre in mente dall’istante della morte di Dora. Vi ricordate, quando veniste giù da me nel nostro salottino... indicando con la mano il Cielo, Agnese?
– Oh, Trotwood! – ella rispose, con gli occhi pieni di lagrime. – Ella era così affettuosa, così fiduciosa, così bambina. Potrei mai dimenticarla?
– Tale come mi appariste allora, sorella mia, vi ho sempre immaginata, veduta di poi. Sempre, e dovunque, col dito in alto, Agnese, sempre nell’atto di guidarmi verso un fine migliore, di dirigermi verso un oggetto più degno.
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