Ho già detto che mi c’ero consacrato fedelmente con tutto l’ardore di cui ero capace, con tutta l’energia di cui potevo disporre. Se i libri che ho scritto han qualche valore, diranno il resto. Altrimenti avrò scritto con poco effetto, e il resto non interesserà nessuno.
Di tanto in tanto andavo a Londra: per perdermi in quella vita turbinosa, o per consultare Traddles su qualche affare. Egli aveva saputo amministrare i miei affari, durante la mia assenza, con molto senno; e, per le sue cure, prosperavano. Siccome la mia celebrità cominciava ad attirarmi un’enorme quantità di lettere da persone a me ignote – la più parte lettere che non dicevan nulla e alle quali era difficile rispondere – convenni con Traddles di far dipingere il mio nome sulla sua porta. Lì, su quella traccia, il devoto portalettere riversava staia di corrispondenza per me; e in quel monte di carte, di tanto in tanto, andavo a immergermi a capofitto, come un ministro dell’Interno, ma senza lo stipendio, nei dispacci di Stato.
Fra quelle lettere, talvolta s’intrufolava una cortese proposta da parte di qualcuno dei numerosi faccendieri sempre in agguato intorno al Doctor’s Commons, di esercitare in mio nome (se io volevo dare i passi che mi rimanevano per essere procuratore), e di pagarmi una percentuale sui lucri. Ma respinsi ogni proposta di quel genere, non ignaro che esistevano molti di simili professionisti, e persuaso che la Corte del Doctor’s Commons fosse già abbastanza cattiva, per dover con la mia opera farla peggiore.
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