Pure, sentii così ripetutamente, durante i nostri andirivieni, parlare di un certo numero Ventisette, che era il favorito, e che veramente sembrava fosse un prigioniero modello, che risolsi di sospendere ogni giudizio finché non avessi veduto il Ventisette. Il Ventotto, appresi, era anche una stella d’uno splendore particolare; ma aveva la disgrazia di aver la sua gloria un po’ appannata dal chiarore straordinario del Ventisette. Sentii tante lodi del Ventisette, e delle sue pie ammonizioni a chiunque gli capitasse d’attorno, e delle lettere che scriveva continuamente a sua madre (da lui ritenuta sulla via della perdizione), che mi spronò una viva impazienza di conoscerlo.
Dovetti frenarla un po’, perché il Ventisette ci era riservato per l’effetto decisivo. Ma finalmente arrivammo alla porta della sua cella; e il signor Creakle, messo l’occhio a un buco nel legno, ci riferì, raggiante di ammirazione, che il prigioniero era occupato a leggere un libro di preghiere.
Vi fu subito un tale agglomeramento di teste per vedere il numero Ventisette occupato a leggere il libro di preghiere, che il buco fu subito ostruito, sotto uno spessore di sei o sette teste. Per rimediare a questo inconveniente, e darci l’opportunità di conversare col Ventisette in tutta la sua interezza, il signor Creakle fece aprire la porta della cella, e invitare il Ventisette a uscire nel corridoio. Fu subito fatto. E qual non fu la nostre meraviglia, la mia e di Traddles, nel vedere in quel pentito numero Ventisette l’indubitabile effigie di Uriah Heep!
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