Così dicendo, il numero Ventotto si ritirò, dopo aver scambiato un’occhiata con Uriah, come se non fossero assolutamente sconosciuti l’uno all’altro e avessero qualche mezzo di comunicazione; e quando la porta si richiuse dietro di lui, si bisbigliò nel gruppo ch’egli era un uomo rispettabilissimo e un bel caso di studio.
– Ora, Ventisette – disse il signor Creakle, entrando decisamente in iscena col suo campione – v’è qualche cosa che qualcuno possa fare per voi? Se sì, ditelo.
– Io chiederei umilmente, signore – rispose Uriah, agitando quella sua testa maligna – il permesso di scrivere a mia madre.
– Certamente vi sarà accordato – disse il signor Creakle.
– Grazie, signore. Mia madre m’impensierisce. Temo che non si salvi.
Qualcuno chiese incautamente: «Da che?». Ma vi fu un bisbiglio di sorpresa: «Tacete!».
– Non si salvi nell’altra vita, signore – rispose Uriah, – contorcendosi dal lato della voce. – Vorrei che mia madre fosse nelle mie condizioni. Io non sarei nelle condizioni in cui mi trovo, se non fossi entrato qua dentro. Vorrei che la mamma fosse qui. Sarebbe meglio per tutti, se fossero presi e condotti qui.
Questo sentimento fu ricevuto con illimitata soddisfazione – una soddisfazione maggiore, credo, di qualunque altra precedente.
– Prima di venire qui – disse Uriah, dandoci un’occhiata obliqua; come se volesse maledire il mondo esterno al quale noi appartenevamo – non commettevo che follie; ma ora son pentito di tutte le mie follie. Fuori non si fa che peccare. C’è molto peccato nella mamma.
| |
Ventotto Uriah Ventisette Creakle Uriah Creakle Uriah Vorrei Uriah
|