Se ella m’amava così da accettarmi per marito (io dissi), sapevo che non era per i meriti miei personali, ma per la sincerità del mio amore per lei, per le sofferenze che ne avevo raccolte: era questo che m’aveva deciso a rivelarglielo. E in questo stesso momento, o Agnese, io vedo risplendere negli occhi tuoi sinceri l’anima di mia moglie-bimba, che mi dice: «È bene»... e ritrovo in te il più prezioso ricordo del Fiore appassito innanzi tempo!».
– Io son così felice, Trotwood! Il mio cuore trabocca di felicità... ma c’è una cosa che debbo dirti.
– Cara, che cosa?
Ella mi mise una mano sulla spalla, e mi guardò tranquillamente in viso:
– Sai di che si tratta.
– Non oso pensarvi. Dimmi, cara.
– Ti ho amato sempre.
Oh, noi eravamo felici, felici! Non piangevamo più dei nostri affanni (i suoi molto più gravi), scaturigine della nostra odierna felicità, ma per la felicità di esser uniti e non separarci mai più.
Andammo quella sera d’inverno a passeggiare insieme per i campi; e alla beata calma ch’era in noi sembrava partecipasse la gelida aria. Le prime stelle cominciavano a brillare, e noi con gli occhi fissi al cielo, ringraziavamo Iddio per averci guidati a quella felicità.
La sera alla finestra contemplammo insieme la candida luna: Agnese levava i suoi occhi calmi, e io seguivo il suo sguardo. Lunghe miglia di strada s’aprivano innanzi al mio spirito; e, in fondo, vedevo un ragazzo lacero, abbandonato e negletto, che sarebbe arrivato a invocare quel cuore, che ora batteva contro il mio, e chiamarlo suo.
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