Era quasi l’ora del desinare, il giorno dopo, quando apparimmo innanzi a mia zia. Peggotty ci aveva detto che era nello studio: ella era orgogliosa di tenermelo sempre in ordine. La trovammo, con gli occhiali sul naso, seduta accanto al fuoco.
– Buon Dio! – disse mia zia, vedendo a fatica fra la penombra – chi mi conduci a casa?
– Agnese – dissi.
Siccome avevamo deliberato di non dir nulla in principio, mia zia rimase alquanto delusa. M’aveva dato un’occhiata piena di speranza, quando le avevo risposto: «Agnese»; ma vedendo che avevo la solita aria, si tolse disperata gli occhiali, e se ne stropicciò il naso.
Pure, salutò Agnese cordialmente; e tosto discendemmo nella luminosa saletta da pranzo per desinare. Mia zia si mise gli occhiali due o tre volte, per darmi un’altra sbirciatina, ma se li tolse sempre, delusa, e se ne stropicciò il naso: con gran dispiacere del signor Dick, che sapeva che quello era un cattivo sintomo.
– A proposito, zia – dissi, dopo il desinare – ho parlato con Agnese di ciò che m’avete detto.
– Allora, Trot – disse mia zia, diventando rossa – hai fatto male, non mantenendo la tua promessa.
– Non mi rimprovererete, spero, quando vi dirò che Agnese non ha nessuna passione che la renda infelice.
– Che discorsi! – disse mia zia. Siccome essa pareva seccata, pensai che la miglior cosa fosse di metter fine al suo malumore.
Condussi Agnese a braccetto dietro la poltrona di mia zia, e ci chinammo entrambi su di lei. Ella ci guardò, giunse le mani, e per la prima e l’ultima volta in vita sua ebbe un mezzo svenimento.
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Dio Agnese Dick Agnese Trot Agnese Agnese
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