Giù tai volumi, che nessuno più vuole, che fan starnutare chi li apre! Solo, rispàrmiami le cartepècore... per le marene allo spìrito. Ma, non perdòno a' scaffali! strappa; uno tràe l'altro; tutto è tarlato, muffito... Che svolazzo di tarme! che còrrer briaco di topi! Quà, la stadera.
E si ripari in un altro studio; ben grazioso, bellino, n'è vero? Quì, la scienza non teme la luce; questa, entra a larghìssime onde. Sulle pareti, dalla tappezzerìa gris-perla ammarezzata, vedi fotografìe con alto màrgine bianco, incorniciate leggermente d'oro... il Partenòne... il Pandròsio... tutte cose che tèrgon la vista; sul lustro intavolato, sedie dall'elegante profilo, fàcili a mòvere; sul tavolino, niente libri, sì bene una rosa non aperta del tutto, in un bicchiere d'àqua. No, quì non ci ha perìcolo d'instupidirsi a furia di sgobbo, quì bisogna pensare col proprio cervello, e quì i pensieri, passati a ingentilirsi nel cuore, dèvono saltellare allegri giù dalle dita lungo quella cannuccia d'argento a penna d'acciajo, dèvono rimanere prigioni senza penne sciupate, sopra il fogliuzzo di lùcida carta, innanzi agli occhi di quell'Amorino di bronzo, il quale, sull'orlo del calamajo, si stà fregando il nasuccio, tìntogli da un altro mariolo d'Amore dal di là della pozza.
Nè ci è manco a temere che le novelline idee si spaurìscan vedendo i freddi resti delle loro antenate. I libri, nel nostro studiolo, chiusi in una breve scansìa di àcero rimpetto al franclìno, son, quasi tutti, vivi, vivìssimi.
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Partenòne Pandròsio Amorino Amore
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