Alberto rimase dov'era, cioè seduto sul màrgine dell'armadietto sostegno alla librerìa. E fisava l'involto.
Degli altri! Èrano clàssici, pesca minuta. Dio sa, come sciocchi! Ma e perchè allora comprarli?
Anni già innanzi, gliene avea dato consiglio un professore di lèttere, il cavalier Tamaròglio (conoscerete) quel chiarìssimo tale, che, com'ebbe scoperti i conti della cucina, mille-e-duecentisti; di Cervellata Martelli fiorentino patrizio, li publicava nella raccolta de' clàssici.
Ah! tu avea egli detto ad Alberto - leggesti l'Alfieri, il Fòscolo, il Manzoni, il Rovani, ed altri del medèsimo sacco? Male, mio caro. Sono autori non puri, pericolosi; o da non lèggersi mai, o solo allorquando non ponno più niente sulla nostra corazza di studi. Conosci "il Pataffio"?
No.
Come? tu non conosci quell'inesaurìbile cava di schietti e nativi modi di dire? Ed il Guittone d'Arezzo? e il Burchiello? e sopratutto quel prezioso librino publicato a mia cura? No? Poffar l'Antèa! vuoi un consiglio d'amico? Va per la corta a pigliarli
Alberto era peranco arancino. Credendo agli occhiali, al barbone, e alla sapiente sporcizia del professor Tamaròglio, di bella prima andò a comperarsi un mucchio di testi di lingua. Bruciava di mangiàrseli tutti, come se avesse avuto dinanzi un piatto di dolci. Ma il paragone val per metà (quale, val tutto intero?): que' libri èran cattivi al palato; bensì, a somiglianza de' dolci, impiastràvan lo stòmaco.
Già pensava egli a tanta scioccàggine sono ancor troppo novizio per poterli capire; mi abituerò; non ci si abìtua allo sìgaro?
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