Chi è che non sa come noi siamo superstiziosi, cattivi, quindi anche buoni, secondo meglio ci torna? Àqua! il dì trèdici?... Poltronarìa aprì tosto ad Alberto un sacco di arlìe.
Dùnque, allontanossi del tutto dallo scrittojo, prese il cappello ed uscì. S'intende ch'egli sentìvasi in corpo quella stracchezza e quella vergogna che ci tormèntano allorchè transigemmo col nostro dovere: come, peraltro, l'uomo si studia di rinvenir sempre ragioni fuori di sè per la mala sua voglia, e di sempre ingannarsi, così Alberto pensò che scrìver col cuore e con l'arte possìbil non era in una sì gnocca e sonnolente aria, e tuttogiorno vedendo gli stessi visi di persone e di case (e tu cambia strada!) di più, abitàndone una dall'eterno sbadiglio. Inquantochè, per vicini, egli avea, a terreno un banchiere; a primo piano, un generale in ritiro, e un alto impiegato; al secondo, due giubilati civili e un canònico. Oh! avess'egli vissuto tra il ràntolo delle seghe, lo squillar delle ancùdi cadenzato col canto, lo strèpito de' telai, il moto, le grida, insomma il fervente lavoro!
Notte; il cortil delle poste. In mezzo, nell'ombra, una diligenza a gobba coperta di tela cerata, alla quale, degli stallieri in camiciotto azzurro, attàccano tre robusti cavalli. E intanto, presso un lampione, il cocchiere aggroppa una nuova scoppiarella alla frusta.
L'interno, completo fà un uomo a berretto listato di oro, scendendo lo smontatojo dell'òmnibus.
E va a dare un'occhiata al coupè. Vi è un giòvane intabarrato.
Uno egli dice, consultando un libretto; poi, volgèndosi al pòrtico manca un signore! il signore nùmero due.
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Alberto Alberto
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