La mattina del 23 maggio la situazione degli eserciti belligeranti era questa: gli alleati ancora al di là della Sesia e del Po, tra Vercelli e Voghera; gli austriaci in faccia a loro, padroni delle due rive della Sesia e del Ticino, e di tutto il Lago Maggiore.
In questo stato di cose Garibaldi si trovava isolato, come campato in aria, ed i suoi cacciatori potevano considerarsi come un nucleo di truppa perduta nel cuore del campo nemico: per cui al nostro eroe non restava che, o vincere subito ad ogni costo, o disperdersi coi suoi per i monti, onde potere all'evenienza rifugiarsi in Isvizzera. A ragion militare veduta, dei due eventi certo il meno probabile non era il secondo. Ed invero l'Austria era signora della Lombardia, la scorrazzava con dodicimila uomini, riceveva rinforzi, o ne poteva ricevere ancora; occupava Milano con imponente presidio, allacciava i suoi distaccamenti con forti colonne mobili pronte a correre nei punti più minacciati; sicchè poteva opporre al condottiero italiano una forza sempre di molto maggiore della sua. Ma a Garibaldi in mancanza di grandi forze erano potenti ausiliari, la perizia e l'indomita audacia. Si fissava quindi nell'antico suo scacchiere del 1848 tra il Verbano e il Lario, e formava in un baleno il suo piano deliberando la marcia su Varese nel giorno stesso.
Un fiero proclama scritto di sua mano, inciso colla sua spada, aveva annunziato il suo arrivo alle popolazioni della regione, e non vi era umile terra dei dintorni che vi restasse insensibile.
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