Scimmiottando i poeti, cominciano con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità, prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono trattare del mistero della Croce, prendono opportunamente gli auspici da Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro discorso è la fede, premettono una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido, scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare il mistero della Trinità, volendo fare cosa che suonasse gradita all'orecchio dei teologi, e mettere al tempo stesso in mostra la sua non comune dottrina, si dette a battere una strada affatto nuova. Partì dalle lettere dell'alfabeto, dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo e dell'aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia dei più, anche se non mancava qualcuno che borbottava tra sé le parole d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente arrivò al punto di dimostrare che l'immagine di tutta la Trinità scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale che nessun matematico potrebbe disegnarla con più evidenza nella polvere. E nel comporre questa orazione, quel teologo principe per otto mesi interi aveva faticato tanto, che anche oggi è più cieco di una talpa, senza dubbio per avere consumato tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto il successo con poca spesa.
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