Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento.
64. Ma perché mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico, tanto è vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante.
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