Questo trattato, che un dottissimo orientalista sostenne per qualche tempo non essere altro che una traduzione dal sanscrito, è invece quella fra le scritture di Archimede che meno ha sofferto per posteriori alterazioni: esso è indirizzato a Gelone, che l'autore chiama pur «re» sebbene vivesse ancora suo padre Gerone, ed egli fosse stato soltanto associato da lui al governo; ed il fine del lavoro è chiarito dalla stessa sua introduzione: «Sonvi alcuni, o re Gelone, i quali pensano che il numero dei grani di arena sia infinito, e dico non solo di quelli che sono intorno a Siracusa ed al resto della Sicilia, ma in qualsiasi altro luogo colto od incolto. Altri pensano che tal numero non sia infinito, ma che però non se ne possa assegnare uno maggiore. Se coloro che così pensano si immaginano un globo di arena uguale a quello della terra, colmante anche le caverne di essa e gli abissi del mare, e che si elevasse fino alle cime delle più alte montagne, tanto meno si persuaderebbero che possa esistere un numero il quale superasse la moltitudine d'esso. Io tuttavia mediante dimostrazioni geometriche le quali potrei seguire col pensiero, voglio farti vedere che fra i numeri da noi denominati nel libro indirizzato a Zeusippo ve ne sono che eccedono non soltanto quello dei grani d'arena di un volume uguale a quello della terra che ne fosse riempiuta, ma anche quello dei grani di arena d'un globo avente la grandezza dell'universo».
Il libro indirizzato a Zeusippo al quale si richiama Archimede, e che poco più sotto egli dice aver titolo «dei principii», non è giunto insino a noi, ma da quanto egli ne scrive qui si comprende che doveva trattare della denominazione dei numeri e fors'anco dei calcoli da istituire con essi, senza però uscire dai limiti che gli erano imposti dalla lingua e dalla scrittura, mentre nell'Arenario vuol raggiungere il numero che, per quanto considerevole, non oltrepassasse i limiti dell'intelligenza umana.
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Archimede
di Antonio Favaro
Formiggini Editore Roma 1923
pagine 63 |
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