Galileo non curò questi primi attacchi, vendicandosene tutto al più con qualche motto arguto e vivace: ma venendogli da Roma che si agitava in quelle alte sfere il partito di prendere qualche grave misura contro il libro del Copernico, ed ancora essendogli riferito che alla Corte di Toscana era stata promossa questione intorno al miracolo di Giosuè, inesplicabile con la nuova dottrina, ed anzi con essa in aperta contraddizione, non potè stare alle mosse e deliberò di intervenire. Perchè la proibizione dell'opera del Copernico da parte dell'autorità ecclesiastica da un lato, ed il prevalere di idee conformi appresso i Granduchi suoi padroni dall'altro gli avrebbero per sempre impedito di combattere per quella verità, nel cui trionfo egli riponeva ormai lo scopo di tutta la sua vita.
Al suo ben affetto Monsignor Dini, il quale gli scriveva, avere udito dal cardinale Bellarmino che, al più che potesse esser deliberato contro il libro del Copernico, sarebbe il farvi qualche correzione, Galileo spazientito rispondeva recisamente che il Copernico non era capace di moderazione, ma bisognava dannarlo del tutto, o lasciarlo nel suo essere.
Col fido Castelli, ammesso nella intimità della Corte, e che lo aveva ragguagliato degli occulti maneggi con i quali, peripatetici e teologi insieme alleati, andavano adoperandosi contro di lui, si apriva in una memoranda lettera, ampliata poi in quell'altra celeberrima alla Granduchessa Cristina di Lorena: documenti ambedue della più alta importanza storica, nei quali con mano ardita e sicura, segna i confini tra la scienza e la fede, divinando i gravissimi pericoli d'un conflitto.
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