Ma nemmeno della sua sottomissione completa si appagano i giudici, i quali vogliono da lui la dichiarazione che abbia parvenza di giustificare la già decretata condanna. Alla intimazione che se non si risolve a confessare la verità, si addiverrà contro di lui agli opportuni rimedii di diritto e di fatto, risponde: "io non tengo, nè ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla: del resto son qua nelle lor mani, faccino quello che gli piace". A questa arrendevolezza non si placano i giudici, più duramente e senza circonlocuzioni imponendogli che dica la verità "alias devenietur ad torturam", a cui l'infelice risponde: "io son qua per far l'obbedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto".
Scarse troppo sono le lettere che in questo dolorosissimo frangente scrisse e potè scrivere Galileo, e nemmeno una è infino a noi pervenuta delle molte ch'egli indirizzò alla prediletta sua primogenita; ma sulle risposte frequentissime con le quali essa lo visitava, e che sono tra le gemme più preziose di tutta la letteratura femminile, possiamo con piena sicurezza affermare che mai egli ebbe attraversata la mente dal timore d'un conflitto che nell'animo della figlia amorosissima avesse potuto sorgere fra i suoi doveri verso il Padre che stava per essere condannato e quelli verso la religione in nome della quale lo si condannava. Questo supremo strazio di sentirsi minacciato nel più puro affetto della sua vita fu certamente risparmiato a Galileo, talmente egli aveva modellato lo spirito di Suor Maria Celeste ad immagine del proprio, e così sinceramente e ad onta di tutto egli aveva saputo serbare intatta la sua fede di cristiano e di cattolico di fronte ai tormenti che la Chiesa infliggeva alla sua coscienza di scienziato.
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