Deve seguire la fisica, e distinguersi da lei; deve abbracciare il complesso dalle nostre credenze, e supporne fuori di sè gli oggetti, affermare le cose senza toccarle: tale è l'apparenza, tale la realtà.
Il primo apparire del pensiero consiste nel vedere gli oggetti; il qual atto del vedere chiamasi percezione se gli oggetti sono fuori di noi, appercezione se sono in noi: interna, o esterna, la percezione è sempre la stessa, riducesi ad affermare ciò che appare, riducesi ad un mero giudizio affermativo. È desso istintivo, immediato, irresistibile, e per esso si passa dal vedere all'essere, dal percipiente al percetto; in breve, si aderisce fatalmente alla realtà, qualunque ne sia la forma: materia, qualità: cosa o individuo.
Data la percezione, si va più oltre: si riflette, si paragona, si astrae, si generalizza, si fanno le altre operazioni a cui il linguaggio più rigoroso riserva la denominazione generale di pensare, come se il vedere gli oggetti e l'affermarli non fosse già il pensare. La distinzione tra il percepire ed il pensare viene dedotta dalla libertà che sembra accordata dalla riflessione, la quale vien mossa dalla volontà, sembra libera, credesi indipendente. Questa indipendenza non è reale, non apparente. Non siamo mai liberi nel discernere il vero dal falso, nell'affermare, nel negare, nel dubitare; il nostro giudizio, sia che si applichi all'oggetto materiale che lo captiva, o ad un pensiero lungamente elaborato che sorga nella nostra mente, resta sempre signoreggiato dagli oggetti.
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