Nel momento in cui penso, la natura cambia, si áltera, non è più quella delle mie ricordanze; invece d'essere da lei cattivato, voglio cattivarla, renderla immobile, eternarla; quindi il mio pensiero invecchia dinanzi alla eterna giovinezza di una natura sempre nuova. Dimandate a chicchessia perchè si è ingannato; risponderà perchè credeva, pensava le cose fossero disposte in quel modo; risponderà come il cavaliere il quale torna nel suo castello risvegliandosi da un sonno di molt'anni: credevasi giovane, e si accorge di esser vecchio; la sua fidanzata era fanciulla, ora è decrepita. La natura ha cambiato. S'anca rimanesse immobile, il nostro pensiero la farebbe variare: non può abbracciarla se non portandosi successivamente da un punto all'altro, tessuto col filo delle Parche, cangiante come il velo di Maya, il pensiero spargerebbe l'errore nel cielo stesso di Platone. In pari tempo ogni sua affermazione si stabilisce eterna, e universale: diciamo che la neve è bianca, non diciamo che sia bianca sulla terra, relativamente a noi; il nostro dire è sempre semplice, dictum simpliciter, non mai relativamente, secundum quod. Tale è la formula dell'errore. Io rendo eterno ogni pensiero, lo fo essere puramente e semplicemente: come il cavaliere della leggenda, credo al perdurare di una cosa che cambia, e lo credo naturalmente, perchè l'essere è meccanico, logico; per l'essere, quanto appare deve rimanere. Io universalizzo ogni pensiero perchè lo stabilisco puramente e semplicemente: imito il pastore il quale estima dalle sue mandre la ricchezza dei re, e lo imito naturalmente, perchè l'essere e universale, se non vien limitato, se non è interamente cattivato dalla natura.
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Parche Maya Platone
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