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      Gli stessi novatori, gli uomini del progresso non indovinano la società che sorge dal loro impulso. Si scorrano Aristotele, Platone, Machiavelli, Montesquieu, non un di loro che indovini l'avvenire; i più temerari nell'utopia non sospettano i più splendidi tra i fatti imminenti. I filosofi dell'antichità non prevedono la disparizione della schiavitù, nè l'istituzione della chiesa: i primi cristiani attendevano la distruzione del mondo e la risurrezione dei corpi. I filosofi del decimottavo secolo non aspettano la rivoluzione, scrivono come se la monarchia fosse inconcussa, come se la servitù delle colonie americane dovesse durate in eterno. Una sola frase di Voltaire annuncia che la nuova generazione sarà spettatrice d'un beau tapage; una sola frase di Rousseau annuncia che le monarchie non potranno durare. Il dono della profezia ci fu negato; la Sibilla non deve intendere i propri oracoli; Mosè non deve toccare la terra promessa; gli Ebrei sono condannati a non riconoscere il Messia. Tale è il fatto.
      D'onde la nostra imprevidenza? Dall'impossibilità di prevedere le conseguenze meccaniche d'un'ispirazione che noi non abbiamo, d'un sistema mistico ancora nel suo nascere. Se il progresso fosse interamente meccanico, coi dati del momento attuale si potrebbe tracciare il disegno dell'avvenire; c'inganneremmo sui particolari, sui casi, sugli accidenti, sulle catastrofi fortuite; e intanto la scienza potrebbe precorrere al complesso degli eventi futuri. Ma l'avvenire sorge da una vita sconosciuta, da un'ispirazione che non si può antivedere e che ignorasi compiutamente.


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Filosofia della rivoluzione
di Giuseppe Ferrari
1851 pagine 693

   





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