Non vi hanno regole per l'arte. I precetti dell'arte poetica riduconsi ad alcune generalità estratte da un certo numero di capolavori. Si decompongono i drammi, i poemi; si traducono nei loro elementi più esterni, si cercano le traccie materiali del ritmo che li ha creati; si contano le sillabe del verso, si osserva l'ordine dei canti, l'atteggiamento della finzione, dell'azione, della finalità, e si dettano le regole. Sono regole tutte esterne e fisiche, cadono sulla realtà: esse pretendono d'imporre al poeta le tre unità del dramma, al dramma il sogno e la catastrofe della tragedia antica, alla tragedia un dato numero di personaggi, un dato numero di atti. Il vero poeta segue le regole senza saperle, le crea ignorandole, le viola sorpassandole: dall'altro lato, il cattivo poeta può comporre pessimi poemi, applicando scrupolosamente tutti i precetti dell'arte. La poesia è dunque opera d'imaginazione, non può essere governata, non può essere insegnata, non può essere trasmessa come la scienza.
Da ultimo, i poeti debbono chiedere alle religioni il soggetto de' loro poemi. Nel fatto, devono rimanere in un sistema mistico, devono parlare a un sistema, voglio dire, a una patria, a un popolo cui appartengono: una poesia fantastica che volesse mostrare il solo ritmo, ridurrebbesi ad un'insipida pastorale, ad una effeminata elegia; un poeta senza religione, senza dati storici, sarebbe un poeta senza popolo, non apparterrebbe ad alcun'epoca, ad alcuna gente. Canterebbe il verde de' prati, l'onda de' fiumi, sarebbe in estasi dinanzi ai pesci, alle selve, ai fiori; sarebbe un selvaggio.
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