L'orrore del furto, il ribrezzo che c'ispira il possesso di cosa rubata, la naturale dignità che ci allontana dalla casa, dalla tavola che non son nostre, il disprezzo del parassita, ospite procace del bene altrui, sono forme varie della ispirazione giuridica della proprietà. Lo stesso principio solleva ogni popolo contro l'invasore straniero; ogni nazione conquistatrice profana un diritto inviolabile, l'infamia del furto l'involge, e la strage è il più santo dei diritti quando libera la patria. Havvi adunque una rivelazione morale che attesta il diritto di proprietà; essa lo consacra; per essa l'occupazione, il lavoro, questi fatti puramente materiali, divengono autorevoli quanto la nostra libertà, e c'identificano colle cose, che diventano così le accessioni della nostra persona. Il dimandare qual'è il passaggio logico tra l'ispirazione giuridica della proprietà e gli atti materiali dell'occupazione o del lavoro, è proporre un problema insolubile, è un dimandare qual'è il rapporto tra il nervo ottico e la visione, tra una ferita e il diritto di difesa. Qui non havvi alcuna equazione, havvi solo una correlazione in pari tempo rivelata ed assurda, incontestabile e contraddittoria: ma appare, dunque è.
Il vero problema sociale non cade sul principio di proprietà, ma sui limiti della proprietà. Come determinarli? Come si determinano tutti i diritti: colla misura dell'utile sancita dal sentimento. Il proprietario isolato, il proprietario i cui beni non sono contestati, incontra solo i limiti della propria libertà, non incontra limite alcuno.
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