E perchè accettavasi la religione? Perchè coincide colla fatalità che ci opprimeva. Siam nati in un mondo ostile, il problema della nostra attività non si svolge spontaneo come negli animali: non v'hanno valori che ci attraggano a lavori determinati e continui; il lavoro ripugna al selvaggio, che la natura vuol vinto da un'inerzia mortale. Non siamo tratti all'azione se non dalla disperata necessità della guerra: egli deve cacciare per vivere e la caccia è già una guerra; il selvaggio deve difendere la foresta che racchiude il suo vitto, e l'inerzia è ancor vinta dalla guerra tra le orde; la guerra gli dà il genio dell'offesa, della difesa, gli dà l'instancabile energia di Nemrod, gli dà lo schiavo a cui imporrà il lavoro che odia, gli dà così il primo germe dell'industria, i primi secreti del governo. La guerra scuote di continuo l'indolenza, le abitudini, l'imprevidenza; la guerra spinge al progresso sotto pena di morte: la guerra fa del selvaggio un eroe, un patrizio; la guerra fa della città guerriera una falange predestinata al dominio della terra. La natura nemica dell'uomo porta la guerra tra gli uomini, e l'umanità sfugge alla propria distruzione, sviluppandosi col genio delle conquiste: quindi le grandi invasioni barbare, i Pelasgi, i Galli, i Tartari, i Germani e i Romani che furono l'espressione ideale del patriziato conquistatore3. Se l'ignoranza nativa vincolava l'uomo alla religione, se la mente umana non poteva sorpassare le necessità imposte al conoscere e al pensare, se la religione era l'errore teorico che non potevasi evitare, la conquista, sotto mille forme e nei suoi innumerevoli accidenti, è l'interesse che la religione santificò e servì. Il suo Dio fu il Dio dell'ingiuria, il Dio del vincitore; il suo miracolo fu la vittoria, la sua autorità fu l'autorità del padrone; dappertutto la rivelazione soprannaturale guidò l'avventuriere alla conquista della terra promessa; dappertutto predicò agli schiavi, ai servi, ai vinti l'obbedienza come un dovere.
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