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      Il commercio e l'industria sono l'opera dei nostri istinti; vivono direttamente sotto il regno della natura, s'avanzano sempre verso l'ignoto; non si sa mai quale sarà la scoperta, quali prodigi contiene l'industria del momento; solo è noto ch'essa modificherà il mezzo in cui viviamo, che ci trasporterà in un mondo rinnovato, che ivi sorgeranno altre passioni, altre volontà, e che ivi un nuovo lavoro ricomincerà per sospingerci anch'esso verso una nuova rivoluzione. L'antichità applaudiva forse all'azione dell'industria e del commercio? No, la combatteva con un odio sistematico. Atene e Roma la disprezzavano; Sparta la sopprimeva; Platone, il gran discepolo di Socrate, voleva fondare la sua repubblica lungi da ogni consorzio, lungi dal mare, perchè il commercio e la navigazione fossero impossibili. Lo stesso pregiudizio governa il medio-evo; il commercio, l'industria sono sospetti e disprezzati, il pregiudizio riappare nel risorgimento; e non si cessa di ripetere che la ricchezza genera il lusso, e che il lusso corrompe la società. Tutta la saggezza antica lottava contro l'industria e il commercio; essa aborriva la libertà dell'artigiano invocata dai moderni; i proletari dell'antichità dimandavano il diritto all'ozio, panem et circenses; l'operaio moderno vuol vivere lavorando, o morire combattendo.
      Gli antichi non credevano neppure all'intelligenza dell'uomo. In loro sentenza l'umanità era decaduta, e pendeva al male, predestinata alla guerra ed alla infelicità. La riabilitazione era opera eccezionale, non si attuava se non per mezzo della casta o dell'individuo.


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Filosofia della rivoluzione
di Giuseppe Ferrari
1851 pagine 693

   





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