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      Indi la sua impotenza.
      Nella religione Robespierre si ferma a combattere l'influenza degli arcivescovi, dei cardinali, dell'alto clero; non combatte la religione immagina di subordinare gli antichi culti al deismo. Quindi impone un Dio che non può dimostrare, che non può manifestarsi, che non può punire, che non può ricompensare e che la stessa metafisica non ha mai rispettato. Non basta: si agita la questione dello stipendio del clero: e il Dio di Robespierre protegge l'evangelio, vi trova una legge di eguaglianza, la paga; nè s'accorge che paga l'eguaglianza nel cielo, che paga la dottrina dell'ineguaglianza sulla terra. V'ha di più. Il deismo di Robespierre denunzia gli atei quai nemici della pubblica moralità, li accusa di tradire la patria, di essere mercenari di Pitt e dell'Austria, li trae al patibolo; Hébert è decapitato, e tutta la reazione europea applaude al supplizio. Si svenava l'uomo che credeva alla propria ragione; a Vienna e altrove credevasi già possibile di aprir negoziati con Robespierre, se l'Essere supremo continuava a regnare, avrebbe potuto benedire un concordato colla chiesa.
      Lo stesso equivoco si riproduce a proposito della proprietà; Robespierre sente che gli incombe di tentare la rivoluzione del povero. Ecco le sue parole: «La feudalità è distrutta», dice egli; «ma non per i poveri, che non possiedono nulla nelle campagne emancipate; le imposte sono distribuite con maggiore giustizia ma l'alleviamento è quasi insensibile per il povero; l'eguaglianza civile è ristabilita, ma l'educazione e l'istruzione mancano al povero.


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Filosofia della rivoluzione
di Giuseppe Ferrari
1851 pagine 693

   





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