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      Pure la morale, staccata dal disegno di una riforma economica, cadeva nel vago, non afferrava i nemici della rivoluzione, ravvisandoli al segno evidentissimo della ricchezza; Robespierre era ridotto ad accusare le intenzioni, a sospettare le tendenze. Voleva incatenare i giornalisti, i mendichi, s'irritava contro la legalità antica che gli sottraeva il nemico, s'irritava contro la legge equivoca da lui stesso voluta, uccideva le persone, lasciava vivere il sistema avverso. Robespierre credeva al popolo, lo voleva armato, gli aveva detto che ogni governo è un commesso, che deve sempre essere sospetto; e non dubitava punto di esser più che un governo, di essere dittatore, di essere l'antico censore, il pontefice antico da lui fulminato. Ma la moltitudine che lo circonda, lo giudica dalle opere, lo vuol dittatore perché denunzia i nemici della patria, il popolo venera l'uomo incorruttibile che vuol verace guerra allo straniero, l'inquisitore giustissimo che invia al patibolo i sediziosi della corte e del clero. Il popolo non vede che Robespierre vuole la rivoluzione del povero, perché non ne vede patente il programma; la metafisica di Rousseau vela Robespierre a tutti, a lui stesso; e quando la patria più non è in pericolo, Robespierre soccombe, non è difeso, non ha più ragione d'essere. Dacchè trattavasi solo di combattere l'antico governo, meno la religione, meno la proprietà, altrettanto valevano i termidoriani e i loro successori, i quali, in quanto risparmiavano il sangue, erano migliori del deputato d'Arras.


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Filosofia della rivoluzione
di Giuseppe Ferrari
1851 pagine 693

   





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