Con questo concetto egli scrive i suoi Discorsi sulle deche di Tito Livio. Già commentate da Macchiavelli, per predicare una religione terrestre contro il pontefice che trasporta fuori del mondo il fine dell'uomo, Toland le aveva pure, come Macchiavelli, interpretate per predicare la religione della terra, il culto della felicità offertaci dalla natura. Afferrando questa tradizione italiana estesa dalla filosofia inglese, il prigioniero vuole che il re si sciolga dalle scabie delle leggi cattoliche, e che imiti i legislatori dell'antica Roma, i quali sforzavano la religione ad obbedire agli istinti ed a consacrare il più grande degli imperi soggiogando la terra promessa dalla natura al dominio dell'uomo.
Per spiegarsi chiaramente senza turbare i carcerieri, Giannone capovolge la teoria già espressa, che il medio evo ripete le superstizioni della antica Roma. Se rinascono nei tempi di mezzo gli esorcismi, gli oracoli, gli amuleti, ne consegue che sussistevano pure ai tempi di Romolo, di Numa e di Cesare gli altari, le cappelle, i pellegrinaggi, le canonizzazioni, le preghiere ai genj invisibili dell'aria, del cielo o dell'inferno. Studiamo adunque gli antichi legislatori, vediamo come domavano l'irrefrenabile poesia del culto, e noi vedremo pure, senza che il prigioniero lo dica, in qual modo la corte di Torino potrà regnare sull'Italia.
Come sorge adunque l'antica Roma? Senza dubbio colla religione necessaria ad ogni società. Per rendere la città più augusta e venerabile, dice Giannone, i capi ne ripetono la prima origine da Enea che non ha mai visto l'Italia, da Marte che non ha mai esistito, da Troja che non è stata distrutta, da viaggi, da avventure favolose, rispettate dal popolo e secretamente derise dai capi.
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