Quasi per intuito magico sente egli a traverso le mura della sua prigione la voce di Freret, di Voltaire, di Rousseau e degli Enciclopedisti, che lasciati da lui giovani o sconosciuti, raddoppiavano i progressi della libertà inglese, ed era vera desolazione per lui il trovarsi solo, senza libri, senza effemeridi, nel momento in cui la China, l'India, la Tartaria, l'America si rivelavano all'Europa attonita di vedere in ripetizione qui le metempsicosi egiziane, là i misteri di Pittagora, altrove le conquiste dei Romani, altrove ancora il medio evo della Chiesa.
Un altro libro abbozzò egli nella sua prigione nel 1746 col titolo di Ape ingegnosa, nel quale raccoglie le sue osservazioni sull'origine del mondo, sulla confusione di Dio colla natura, sulla formazione dell'uomo sull'eternità delle religioni, che dice di diritto naturale delle genti, nel mentre che considera come non naturale il cristianesimo. Noi abbiamo già fatto uso di questo lavoro, che consideriamo di vera filosofia, e senza di esso non avremmo potuto asseverare con sicurezza qual fosse la vera, base della sua dottrina storica. Ma troppo si avvicina questo scritto all'ultima ora dello scrittore, e la penna sembra cadergli dalle mani. L'erudizione lo abbandona, l'alimento dei libri mancando, lascia languire la fiamma dell'invenzione, e le preoccupazioni personali lo interrompono sì spesso, che il lettore è straziato come se intendesse i lamenti di un morente. Le postille, i richiami, le note, le aggiunte non potrebbero essere in maggiore numero, fino dal titolo, che troviamo avviluppato da una nota sugli autori che scrissero in prigione le loro opere.
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