Questa donna qui non avrebbe potuto con maggiore chiarezza affermare che la selva non è punto la vita decenne che gli rimprovera, vita che trascorse lasciandosi trarre ad immagini fallaci di bene, cioè ai mondani piaceri, ma bensì l'infelice stato in cui cadde, tradotto da quelle false apparenze. E come dessa non ce lo avesse sufficientemente fatto manifesto, al Canto XXXI del Purgatorio ce ne leva affatto ogni dubbio, spiegandoci meglio qual sorta di cose fossero quelle che lo fecero errare e cader basso, e come fossero lusinghiere, dicendo a Dante
v. 44. «.... perchè altra voltaUdendo le sirene sie più forte».
Le quali sirene ognuno sa quanto fossero allettanti ed incantevoli: onde ben disse che era pieno di sonno in quel punto che abbandonò la diritta via, incantato com'era da quelle maledette, contro cui non aveva usato il rimedio d'Ulisse.
Ma, dimando ancora, quale è questa misera condizione in cui venne Dante trascinato da quei falsi piaceri? Anche qui due cose si potrebbero rispondere: o è quella cui reca l'errore come peccato uccidendo l'anima; o è quella a cui lo reca come vizio e passione, che non onorando la vita le toglie facoltà d'intendere a degne imprese. Il discorso di Beatrice ai luoghi citati non ci dà questa volta bastevole norma per conoscere il vero pensiero del poeta; e come dalla pittura della selva, così dalle parole di lei si potrebbe arguire l'una cosa e l'altra. Quando verremo a dichiarare il senso anagogico si vedrà perchè Dante non siasi aperto più di quello che abbia fatto.
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