Quivi venuti, Virgilio, ficcati gli occhi suoi in Dante, dice:
v. 127. «... Il temporal fuoco e l'eternoVeduto hai, figlio, e se' venuto in parte
Ov'io per me più oltre non discerno.
Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;
Lo tuo piacere omai prendi per duce;
Fuor se' dell'erte vie, fuor se' dell'arte.
Vedi là il Sol che in fronte ti riluce;
Vedi l'erbetta, i fiori e gli arboscelli,
Che questa terra sol da se produce.
Mentre che vegnon lieti gli occhi belli,
Che lagrimando a te venir mi fenno,
Seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più, nè mio cenno:
Libero, dritto, sano è tuo arbitrio,
E fallo fora non fare a suo senno;»
E tutto ciò dice Virgilio perchè Dante cristiano, dovendo parlare del Cielo non poteva più attendere alla poesia pagana, ma tutto si doveva abbandonare alla sua dottrina, che lo aveva a scorgere, come lo scôrsero gli occhi di Beatrice figurati in quella. Talchè se Dante pur aveva d'uopo di ricorrere a poesia, come ben era mestieri, anche cantando il Paradiso, si prese a compagno Stazio che non più gli andava innanzi come aveva fatto Virgilio, ma gli teneva dietro alle spalle; per dinotare che nel Paradiso ha seguìto più che l'estro, la dottrina (Purg., C. XXVII, v. 47 - C. XXXIII, v. 135). Ed è come se Virgilio avesse detto: Figliuol mio, io ti ho insegnato a fare il poema, e fino a qui tu ti sei tratto mercè l'arte e lo stile che da me apprendesti. Ora l'arte mia ed il mio stile, dovendo tu cantare cose celestiali, non ti può giovare. Ti conviene cogliere i fiori da' tuoi sacri libri e fartene capitale per quando la tua mente sarà fatta capace della scienza di Dio, la quale solo ti può insegnare il modo da descrivere il Paradiso.
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