Ancor giù tornerai, apri la bocca,
E non asconder quel ch'io non ascondo».
Per tutte le quali cose riportate dal testo si scorge chiaramente affermato che l'avarizia dei Papi e del clero, il grave scandalo che ne proviene alla cristianità, l'ambizione di potere temporale, onde prevarica l'apostolica autorità, sono tutti mali derivati dall'avere i pontefici il regno terreno: che il rimedio che s'invoca è che questo regno tanto funesto sia tolto al Papa e sia dato a Cesare, il quale regga da Roma l'Italia tutta. E in tale concetto vediamo che il Poeta lungi dall'avere parlato accidentalmente ed alla sfuggita del clero, scorgiamo invece che ha dell'argomento toccato tutti i rami, con una forza, con una diffusione, con una ripetizione tale che non ha mai fatto in tutte le altre materie di vizii da lui maneggiate. Anzi possiamo asserire che le più volte di viva forza ha voluto discorrerne, anche quando il proposito non lo richiedeva. Vediamo che Dante ha chiamato ed introdotto a parlare tutti quelli che erano più acconci al suo intendimento, così artifiziosamente da far palese il gran bisogno che aveva di loro; e ognuno che sappia leggere e valutare l'arte d'un gran poeta può riconoscere questa verità principalmente ai Canti XIX e XXVII dell'Inferno. Di più ci accorgiamo ancora che quanto più si avvicina il poeta alla fine tanto maggiormente incalza; onde non viene in cielo sulla scena alcun santo che abbia avuto ministero nella Chiesa, il quale per ultimo non irrompa sdegnato contro l'abuso che si fa in terra della religione da quelli a cui n'è affidata la custodia, e non avverta che il riparo giungerà sollecito, che è lo spogliamento alla Chiesa dello Stato terreno per darlo a Cesare, il quale ha da regnare in Roma.
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