Tuttavolta me ne rimetto, e vi riverisco devotamente.
LETTERA VIII.
Villa, 26 Ottobre 1694.
Al medesimo.
La mia sbirratica magistratura mi richiama ora, dopo quattr'anni d'interregno, a dar delle sentenze coll'ascia. Onde non tarderò molto a farmi vedere in lucco, tutto quanto orrevole e maestoso. Nè mi sono curato di passare a un altra mano, perchè così la febbre m'uscirà da dosso più presto. Non occorre dunque che vi pigliate l'incomodo di ragunare il magistrato, perchè io medesimo tra pochi giorni comparirò davanti al vostro tribunale,
Qual reo che morte aspetta, e ragion chiede.
Quanto al sonetto della Linea, anch'io mi sento dolere nella seconda quartina, la quale non è di tutta mia soddisfazione, ma dopo molte e molte mutazioni, mi sono alla fine fermato in questa, come la meno cattiva.
Bisogna dunque aiutarmi, perchè su questo luogo confesso di avere spuntato quasi tutti i ferri della mia bottega. Non veggo poi l'ora di sentire il motivo del priore sopra l'intrise, e già me lo figuro nella sua laidezza, bellissimo ed argutissimo. Mille grazie a voi della pazienza che avete in raffazzonare i miei cenci, e vi riverisco di tutto cuore.
Addio.
LETTERA IX.
Mercoledì, a ore 15 ½ 1695.
Al medesimo.
La vostra critica sopra il mio sonetto, non può essere nè più giudiziosa, nè più giusta; nè dirò che mi sia giunta nuova, perchè sentendomi anch'io dolere, dove vi siete sentito doler voi, me l'aspettava più che di pepe. — Certo è, che a voler che la similitudine non sia zoppa, deve il patto essere correspettivo e reciprocamente oneroso, come voi dite; ma la disperazione, a oggetto di guarir d'un male, da me stimato incurabile, mi aveva proposto un rimedio forse peggiore del male medesimo.
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Ottobre Linea
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