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      Quando parlava di Lamartine "questa gran chitarra che una repubblica ebete si pose in capo sul serio", certi rudi e gagliardi paroloni piemontesi mezzo sepolti nella memoria gli si smuovevano dentro, venivan su con lo sdegno e gli uscivano come cannonate. Picchiava poi sodo sulla folla, picchiava su i poeti e i romanzieri francesi con furore, perché la poesia moderna e il romanzo, in qualunque lingua, gli erano odiosi. "La società è inferma", soleva dire, "e questi asini poltroni di letterati non fanno che eterizzarla continuamente". Per questo Marina non gli faceva vedere i suoi libri francesi. Gli parlava invece spesso e sinceramente di religione.
      Il conte aveva una religione tutta propria, forse non troppo logica, ma ben salda e tenace come le altre sue opinioni. Credente in Dio e nello spirito immortale, partiva dal testo "gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis" per dividere nettamente le cose del cielo dalle cose della terra, e operare, secondo la sua espressione, il decentramento religioso. "Sappia" disse una volta ad un cattolico troppo zelante, "sappia che Domeneddio, per festeggiare la nascita di suo figlio, ha dato agli uomini la costituzione." E poi, per dimostrargli che Dio regna glorioso in excelsis e non governa in terra, gli citò imperturbabilmente Lucrezio come se costui fosse un redattore della Civiltà Cattolica. Ciò posto, affermava che gli uomini sono liberi di vivere sulla terra seguendo quella idea del vero e del bene che ciascuno è in grado di formarsi.


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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519

   





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