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      Curioso ragazzo, quel Rico. Era il primo de' primi alla caccia, alla pesca, al nuoto, alle sassate e alla scuola. Leggeva e rileggeva con passione i libriccini toccati in premio e il Guerrin Meschino, principio e fine della biblioteca di famiglia. Copriva qualche volta con grande onore le funzioni di chierico della parrocchia e si vantava di declamare il suo latino come "on scior curât"; per cui passava sdegnoso e altero nella sua tonachella bianca fra la minor caterva dei sudici marmocchi ammucchiati alla balaustrata dell'altare maggiore. Ai padroni era devoto ciecamente. Diceva di voler bene prima al Signore, poi alla mamma, poi ai "sciori", poi al papŕ, poi alla "sciora maestra", poi al "scior curât". Non c'erano per lui altri "sciori" al mondo che quelli del Palazzo. Ne parlava come se fosse una cosa sola con essi, opponendo sempre "il nostro palazzo", il "nostro giardino", la "nostra lancia" alle cose di cui gli si raccontavano meraviglie. Aveva la lingua d'un passero; giuocasse, lavorasse o mangiasse, gli era uno scoppiettěo continuo di chiacchiere e di risa, salvo quando si trovava in presenza del conte, che allora ammutoliva. Conosceva tutti i pettegolezzi del paese e possedeva un fondo inesauribile di fiabe, di leggende popolari. Marina lo interrogava spesso sulle tradizioni relative alla Matta del Palazzo. Egli le raccontava in mille modi, intrecciandovi il lavoro della sua capricciosa e poetica fantasia, specialmente nella catastrofe del dramma. Un giorno l'eroina scompariva insalutato hospite, per andarsene "drizza" a casa del diavolo; un altro giorno il marito la faceva buttar giů nel Pozzo dell'Aquafonda in Val Malombra, come la gente del paese chiamava un vallone deserto della montagna di fronte al Palazzo; l'ultimo feudo di Marina, diceva lei.


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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519

   





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