Silla, ch'era sdraiato sull'erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologio, lo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l'erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inerti, piegò il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovra tutto al sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimedio, di un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giunto, d'avere un piede proteso nel vuoto.
Un'amara energia gli corse le vene, ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell'ora che incalzava.
Era lì da un'ora allo stesso posto della sera precedente sull'erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non avessero a passar mai, eccole corse, svanite, come un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.
Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non altro.
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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519 |
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