A Luisa
Ove l'aëreo tuo pensile nidoUna balza ventosa incoronando
Ride alla luna ed ai cadenti cliviCh'educan uve a la tua mensa e rose
Al capo tuo, purpurëi ciclamiA me, sogni e fragranze, o mia Luisa,
Da l'orror di quest'ombre ti figuraL'amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l'alto balcon già non rimiriLe bianche plaghe d'occidente, i chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l'astro; ma quest'unaTenebra esplori, l'aura interrogando
Vocal che va tra i mobili oleandriDe la terrazza e freme il nome mio.
Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l'era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'organista di Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l'estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta.
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